Scienziata che guarda un microscopio e studia la mutazione che protegge dall'Alzheimer

Tendenzialmente la malattia d’Alzheimer (AD) non fa parte delle malattie genetiche ereditarie. Tuttavia, esistono alcune sue rare forme – circa il 10% – in cui la componente genetica assume un ruolo fondamentale. Per esempio, nella mutazione “Paisa”, chi possiede il gene presenilina-1 ha un rischio maggiore di formazione di ammassi della proteina beta-amiloide, principale responsabile delle malattie neurodegenerative come l’Alzheimer.

Il neurologo Francisco Lopera dell’Università di Antioquia di Medellin (Colombia) ha studiato per oltre 40 anni più di 6mila soggetti con sviluppo precoce di AD a causa del gene della presenilina-1. Gli studi sono proseguiti fino a quando un uomo di 67 anni, nonostante la presenza del gene e l’accumulo di proteina beta-amiloide, non ha presentato alcun sintomo della malattia. Da qui lo studio pubblicato sulla rivista Nature.

LO STUDIO SULLA MUTAZIONE DEL 2021

Partendo dall’analisi del genoma di oltre 1200 persone affette dalla mutazione “Paisa”, gli scienziati guidati da Lopera hanno confermato quanto scoperto precedentemente. Solo l’uomo di 67 anni non aveva ancora sviluppato la malattia nonostante le sue condizioni favorevoli. È seguita un’analisi tramite risonanza magnetica che ha confermato l’accumulo di proteina beta-amiloide paragonabile a quelli di una persona con l’AD. Anche la corteccia entorinale è risultata poco danneggiata nonostante la presenza della proteina.

A questo punto non restava che indagare il perché. E il perché, ancora una volta, è ascrivibile alla genetica. L’uomo, infatti, oltre a possedere il gene presenilina-1, aveva anche una rara mutazione del gene reelina. Gli scienziati, tuttavia, non erano sicuri che quel gene fosse davvero il responsabile della “protezione” della malattia.

Per questo motivo è partita una seconda fase dello studio su un modello animale. Su alcuni topi con AD è stata inserita la rara forma del gene e, successivamente, ne sono stati osservati i risultati. È stata prodotta una proteina amiloide incapace di accumularsi a livello dei neuroni impedendo, in questo modo, lo sviluppo della malattia.

LO STUDIO DEL 2019

Due anni prima era stato osservato un risultato simile anche su una donna, anch’essa portatrice della doppia mutazione, quella predisponente e quella protettiva. Lei, però, aveva comunque sviluppato la malattia anche se in forma più lieve e 30 anni dopo rispetto a chi possedeva solo la mutazione “Paisa”.

I due studi pongono, quindi, un punto interrogativo sul meccanismo alla base dell’AD. I risultati, infatti, contrastano con la teoria che vede nella proteina beta-amiloide la principale causa nella genesi della patologia. La domanda che quindi ora sorge spontanea è: siamo vicini ad un cambio di paradigma? Non resta che attendere.

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