Recenti studi incentrati sulla comprensione della patogenesi del Parkinson hanno portato alla luce alcune scoperte, fra cui un anticorpo monoclonale che agirebbe su uno dei meccanismi della patologia. Tali scoperte, benché necessitino di ulteriori studi, aprono la strada verso la realizzazione di trattamenti efficaci.

Prima di entrare nel merito della ricerca sull’anticorpo monoclonale, è bene conoscere questo tipo di sostanza.

Alla scoperta degli anticorpi monoclonali

Gli anticorpi, detti anche immunoglobuline, sono proteine prodotte dai linfociti B. Essi sono coinvolti nella risposta immunitaria e il loro compito è di natura protettiva. Consiste infatti nel legare e neutralizzare le sostanze potenzialmente dannose per l’organismo (antigeni) e contrastare l’attacco di microrganismi considerati estranei e/o patogeni (virus, batteri o tossine). Gli anticorpi sono in grado di riconoscere diversi tipi di antigeni e per questa loro caratteristica sono chiamati policlonali.

Vi sono però una particolare categoria di anticorpi, detti anticorpi monoclonali. Il loro meccanismo d’azione è lo stesso dei policlonali, ma a differenza loro sono più “specializzati”. Si legano infatti soltanto a un determinato tipo di antigene, con l’obiettivo di ottenere una risposta immunitaria più forte. Inoltre, a differenza degli anticorpi policlonali, sono prodotti in vitro e possono avere origine da cellule animali o umane. In particolare, abbiamo anticorpi monoclonali con:

  • Origine interamente animale (da cellule di topo); prendono il nome di murini.
  • Origine in parte animale (da cellule di topo) e in parte umana; sono detti chimerici.
  • Origine prevalentemente umana (ad eccezione della parte che si lega all’antigene specifico); sono chiamati umanizzati.
  • Origine interamente umana (umani).

Gli anticorpi monoclonali vengono utilizzati in ambito diagnostico e terapeutico. A questo secondo scopo è riconducibile una ricerca sul Parkinson che avrebbe individuato un anticorpo monoclonale per rallentare il deterioramento motorio tipico di questa patologia.

Piacere, Prasinezumab

Il protagonista dello studio pubblicato su Nature Medicine è l’anticorpo monoclonale Prasinezumab. Il gruppo di ricerca di Gennaro Pagano del Roche Innovation Center di Basilea ha analizzato gli effetti potenziali di Prasinezumab sulla progressione motoria in quattro sottogruppi di pazienti con sintomi motori in rapido peggioramento.

Questo anticorpo avrebbe come bersaglio l’alfa-sinucleina, una proteina che, nelle sue forme mutate, diffondendosi in modo anomalo nel cervello, altera le funzioni dei neuroni, impedendo loro la comunicazione e facendoli degenerare. Prasinezumab legandosi all’alfa-sinucleina aggregata, ne consentirebbe la degradazione, riducendo perciò considerevolmente il peggioramento dei sintomi motori nei pazienti affetti da Parkinson in rapida progressione.

Dai risultati è emerso tuttavia che l’effetto positivo di Prasinezumab sarebbe presente solo a un anno nei pazienti con Parkinson in rapida progressione. Il limite di questa ricerca pone dunque le basi per approfondire lo studio in questa direzione e determinare se Prasinezumab possa essere efficace in pazienti con una progressione più lenta della malattia dopo periodi di trattamento più lunghi (oltre un anno).

I ricercatori sono già all’opera sia per confermare gli effetti dell’anticorpo nei pazienti con malattia di Parkinson in rapida progressione, sia per testarne l’efficacia nella progressione più lenta.

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